martedì 20 luglio 2021

Ferrara (FE) - Monastero S. Antonio Abate in Polesine

 

                                          Monastero S. Antonio Abate in Polesine  - Ferrara (FE)


Collezione Pappalardo

Cenni storici

(a cura di Francesco Scafuri)
 
Beatrice II d’Este e la fondazione del complesso 

Ancora oggi una piccola comunità religiosa di monache benedettine custodisce i preziosi ambienti di clausura del monastero di Sant’Antonio in Polesine risalente al XIII secolo.
La protagonista della storia della chiesa e del convento di Sant’Antonio in Polesine è la Beata Beatrice II d’Este, figlia di Azzo VII d’Este (marchese di Ferrara) e di Giovanna di Puglia.
Ben presto Beatrice, che nacque attorno al 1226, rifiutò la vita agiata che la sua condizione le consentiva, cosicché nel 1254 iniziò la vita di monaca, che condivise con la fedele damigella Meltruda presso il monastero di Santo Stefano della Rotta di Focomorto: le due donne fecero la loro professione religiosa dinanzi al vescovo Giovanni Quirini, seguendo la regola di San Benedetto, come da successiva ratifica papale. Si formò, quindi, una comunità unità dalla fede composta da altre nobili fanciulle e damigelle che, attratte dalle virtù della Beata, chiesero di aggregarsi, tanto che il piccolo cenobio di Santo Stefano della Rotta risultò insufficiente ad accoglierle tutte.
Nel 1257 Beatrice II d’Este, insieme ad un numero cospicuo di monache benedettine, si stabilirono in un convento con orto ed altre proprietà attigue, di cui erano entrate in possesso, dove viveva da tempo una piccola comunità di frati agostiniani, trasferitasi quell’anno presso la vicina chiesa di Sant’Andrea. L’antico complesso si trovava sull’isola formata dal Po di Ferrara (poi denominata di Sant’Antonio), alla confluenza di quelli che nel medioevo erano i due rami principali dell’antica asta fluviale (cioè il Primaro ed il Volano). L’isola, che aveva una forma allungata, era compresa tra le attuali vie Ghiara-XX Settembre (che era il limite nord) e Baluardi a sud.
Si costruì dunque un nuovo monastero più ampio, utilizzando parte delle strutture del precedente convento, che divenne il monastero di Sant’Antonio in Polesine con chiesa annessa, la cui fondatrice fu proprio Beatrice. I lavori di edificazione della chiesa, contemporanei al rinnovamento dell’antico insediamento agostiniano, iniziarono nel 1257-58 e si protrassero per qualche decennio. Secondo la tradizione, sia l’edificio di culto che la parte conventuale furono progettati da Maetro Tigrino, un architetto locale.
Per quasi cinque anni la Beata visse nel nuovo cenobio in costruzione, dimenticando le sue nobili origini e sempre obbediente verso l’abbadessa ma, ormai deperita per i digiuni prolungati e le penitenze nella preghiera, non riuscì a vedere realizzate tutte le opere: morì, infatti, poco più che trentenne, nel 1262. Solo dopo due anni si continuò la costruzione del complesso, utilizzando materiali provenienti dalla chiesa e dal convento di Santo Stefano della Rotta di Focomorto, con l’autorizzazione di un breve di papa Clemente IV.  I lavori di completamento della chiesa e del monastero di Sant’Antonio in Polesine erano ancora in corso nel 1287, come si evince dagli Statuti del Comune di Ferrara.
Intanto, già nel 1270 il vescovo di Ferrara Alberto Pandoni aveva approvato il culto della Beata Beatrice II d’Este, permettendo la celebrazione di messe sull’altare a lei dedicato. Il suo corpo, sepolto nell’angolo del primo chiostro del convento, vicino alla chiesa, rimase incorrotto per 250 anni, cioè fino al 1512, nonostante gli annuali lavaggi della salma con ovatta intrisa di vino e acqua, che veniva poi distribuita ai fedeli ammalati. Poi il corpo andò incontro ad un progressivo degrado, tuttavia, tra il 1527 e il 1530 circa iniziò un lento e costante gocciolamento d’acqua dalla pietra che aveva custodito le spoglie della beata, un’acqua che si riteneva avesse proprietà taumaturgiche. Nel 1774 papa Clemente XIV ratificò poi definitivamente il culto secolare della Beata. E’ noto che i suoi resti mortali, a seguito di varie ricognizioni avvenute nei secoli, passarono in diversi reliquari, fino ad essere conservati in una statua con il viso e le mani d’argento realizzata nel 1961, che si trova nel convento sotto l’altare della Cappella a lei dedicata. Chi ha fede lega a Beatrice d’Este lo stillicidio d’acqua che, ogni anno tra ottobre e marzo, scaturisce tuttora dalla pietra sepolcrale vicino all’altare.

La chiesa e il monastero nei secoli successivi 
Dopo la rotta di Ficarolo del 1152, il corso del Po di Ferrara si era in parte prosciugato, tanto che verso l’argine sinistro si era formata verso la fine del XIV secolo una lunga striscia di ghiaia; allora il marchese Nicolò III d’Este nel 1401 la delimitò con dei fittoni e concesse l’autorizzazione a coloro che volevano fabbricarvi la propria abitazione, di fatto trasformando quello che era parte del letto del fiume in una vera e propria strada, chiamata della Giara (o della Ghiara), identificata con le attuali vie XX Settembre e via Ghiara. Anche a seguito di questo fatto la duecentesca chiesa di Sant’Antonio in Polesine acquisì maggiore importanza, perciò fu consacrata il 26 febbraio 1413 dal vescovo Pietro Boiardi. In quel periodo molto probabilmente l’edificio di culto fu modificato, poiché nel narcete della facciata (cioè nel porticato esterno) si colgono “echi pomposiani” compatibili, secondo alcuni, con un’architettura riferibile proprio agli inizi del XV secolo. Contribuiscono a nobilitare il prospetto principale, restaurato nel 1934 a cura dell’Associazione Ferrariae Decus, alcune lapidi funerarie a lato del portone d’ingresso della chiesa, tolte dall’antico pavimento interno lo stesso anno, quando fu sostituito: una delle lastre marmoree è datata 1106, mentre un’altra ricorda Cristoforo Messisbugo, celebre cuoco della corte estense nel XVI secolo.
L’edificio di culto fu sottoposto ad alcune modifiche dopo il Concilio di Trento (1545-63). Secondo i nuovi concetti, la chiesa venne divisa in due parti: quella “interna” è parte integrante del complesso claustrale e contiene il “coro delle monache”, composto da una sala sulla quale si affacciano tre cappelle con affreschi di varie epoche, tra cui quelli del XIII e XIV secolo sono i più famosi; quella pubblica è costituita da una pianta ad aula, trasformata all’interno nella seconda metà del XVII secolo in stile barocco.
Così come nel convento, non si contano i lavori eseguiti nell’edificio di culto. Uno dei più importanti, eseguito in ossequio alle norme liturgiche emanate dal Concilio Vaticano II (1962-65), consistette nel distacco dal muro di fondo dell’altare settecentesco della chiesa pubblica, che venne ridotto di dimensioni in modo che la mensa rimase libera per celebrare anche verso i fedeli; l’altare fu poi di nuovo consacrato nel 1971 al termine delle opere.
Il monastero di clausura, con i suoi ambienti di pregio, gli affreschi, i pregevoli soffitti lignei e le opere d’arte, riveste senz’altro grande interesse. Particolarmente interessante il primo chiostro, quello immediatamente adiacente alla chiesa, circondato da quattro ali con loggiati di varie epoche, che si affacciano su di un bel giardino. Di particolare interesse il prospetto dell’ala nord, dove il piano superiore è impreziosito da una famosa loggetta, caratterizzata da alcune curiosissime colonne in rovere che si avvolgono a spirale a sorreggere l’architrave: unico esempio a Ferrara, risalgono al XIII secolo.
Il complesso monastico, sottoposto nel Quattrocento e nel secolo successivo ad altri importanti lavori, fu un luogo prestigiosissimo per tutto il XV secolo anche in relazione alla sua fondazione estense. Vi furono ospitati ben tre papi, che visitarono il sepolcro di Beatrice d’Este all’interno del convento: papa Giovanni XXII nel 1414, Eugenio IV nel 1438 (in occasione del concilio ecumenico tenutosi a Ferrara) e successivamente Pio II Piccolomini (nel 1459), quando si fermò a Ferrara per recarsi al congresso di Mantova per invitare alla crociata contro i turchi.
Ricordiamo che chiesa e convento, ancora a metà Quattrocento, risultavano piuttosto scomodi da raggiungere, nonostante l’intervento di Nicolò III, perché in alcuni periodi dell’anno l’area assumeva ancora le caratteristiche di un’isola. Ma tale situazione fu risolta definitivamente nel 1451, quando a seguito dell’ulteriore inaridimento dell’antico corso del Po di Ferrara, fu possibile congiungere urbanisticamente tutta la zona con la città. L’area urbana con il convento benedettino veniva contemporaneamente protetta da nuove mura, costruite immediatamente a sud del complesso religioso per ordine di Borso d’Este, che aveva promosso l’intero intervento urbanistico, la cosiddetta “Addizione” che da lui prese il nome. Verranno aperte, sempre nel 1451, anche alcune porte tra cui la Porta dell’Amore e quella di San Pietro, di conseguenza si realizzeranno le relative strade di accesso (oggi denominate via Porta d’Amore e via Quartieri). A poco a poco, quindi, il Polesine di Sant’Antonio sarà perfettamente integrato nella città e gli abitanti dell’area diventarono a tutti gli effetti cittadini di Ferrara nel 1466, a lavori conclusi.
Il monastero si era caratterizzato nel tempo come il luogo dove prendevano i voti le giovani più nobili della città: tra le 60 monache presenti a Sant’Antonio in Polesine nel 1466, vi era infatti anche Margherita, sorella di Borso d’Este.
Anche per questo nel complesso religioso si viveva in condizioni migliori rispetto alle povere abitazione circostanti, come dimostrerebbe la qualità degli oggetti rinvenuti durante gli scavi archeologici degli ultimi anni eseguiti in Sant’Antonio in Polesine, pubblicati in un volume sul monastero curato da Chiara Guarnieri, con studi di Marinella Mazzei Traina e Andrea Faoro sulla vita che un tempo si svolgeva nei pressi del monastero. I due autori forniscono indicazioni sulle case che sorgevano attorno al nucleo originario del convento benedettino quando l’area era ancora un’isola. Tali abitazioni fino ai primi decenni del Quattrocento risultavano per la maggior parte ancora costruite di legno e canne. Interessante anche la disamina dei mestieri che svolgevano gli isolani nel periodo medievale: oltre ai barcaioli, che portavano le merci da una riva all’altra del fiume, sono documentati facchini, carrettieri, asinai, mugnai, carpentieri, braccianti, straccivendoli, tintori ed artigiani che lavoravano vari tessuti e la lana.
Continuando il nostro excursus storico, sappiamo che nel 1629 (quando tra monache ed educande c’erano più di cento religiose) il monastero di Sant’Antonio in Polesine fu ampliato, quindi restaurato nel 1706. Il cenobio benedettino conobbe nel XVIII secolo un periodo di grande fulgore, anche dal punto di vista patrimoniale: secondo una carta del 1734 del perito agrimensore Carlo Sestola erano ben 108 le proprietà del monastero nel Polesine di Sant’Antonio.
Nel 1796, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi, la chiesa fu chiusa al culto e il convento venne dichiarato reclusorio, destinato ad accogliere le monache dei vari conventi. Fu autorizzato l’uso della chiesa nel 1798, ma la porta esterna doveva rimanere chiusa, così la superiora fece fare una porta d’accesso al chiostro. Nel 1801 nel monastero di Sant’Antonio in Polesine (o di Sant’Antonio Abate) vennero concentrati alcuni gruppi di religiose, come le benedettine di San Silvestro, le “madri” di Cà Bianca e due domenicane di San Rocco.
Il complesso subì nel tempo diverse manomissioni e forse le più gravi di queste furono le trasformazioni operate a partire dal 1914, quando il secondo chiostro ubicato in fondo a via del Gambone (passato al demanio militare), ma anche parte del primo, furono ridotti a caserma al fine di ospitare uno squadrone di cavalleria con relativo magazzino. Ancora oggi la chiesa e l’antico convento hanno mantenuto la destinazione originaria; invece, negli ultimi decenni il secondo chiostro è stato destinato ad altri usi e negli ultimi tempi il Comune e la Soprintendenza per i Beni Architettonici di Ravenna hanno promosso interventi per evitare il degrado dell’immobile.
Per concludere, è documentato che le incursioni aeree della seconda guerra mondiale causarono gravi danni al monastero di Sant’Antonio in Polesine e le monache benedettine furono costrette ad abbandonarlo dal gennaio 1944 all’aprile 1945. Importanti interventi di recupero vennero eseguiti dal Genio Civile di Ferrara dal 1948 fino al 1955 e riguardarono anche la riparazione del tetto della chiesa. Altri restauri vennero eseguiti in seguito nel monastero di clausura dalle monache e dal Comune (ente proprietario), mentre alcuni sono ancora in corso.

 


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